CONTRIBUTO SCIENTIFICO
15 Maggio 2020
SALUTE E SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO AL TEMPO DEL COVID-19
RESPONSABILITÀ PENALE DEL DATORE DI LAVORO
e RESPONSABILITÀ DELLE PERSONE GIURIDICHE EX D.LGS. n. 231/2001
- Premesse
Come noto, l’emergenza sanitaria da COVID-19 ha imposto la necessità di intervenire con provvedimenti normativi, a livello centrale e locale, volti a limitare gli spostamenti di persone e merci, onde contenere la diffusione del contagio.
A tal fine sono state approntate misure che hanno drasticamente inciso anche sull’organizzazione del lavoro in generale; in una prima fase (cd. “Fase uno”), prorogata dal DPCM del 10/04/2020 fino al 3 maggio, il Governo ha sospeso gran parte delle attività commerciali e industriali (ad eccezione di quelle necessarie al soddisfacimento dei bisogni primari e essenziali dei cittadini).
Con il successivo DPCM del 27/04/2020 è stata disciplinata la cd. “Fase due”, con cui si è consentita la riapertura di alcuni altri settori, fatta salva l’adozione e il rispetto di precisi protocolli per la salute e sicurezza di clienti e lavoratori.
Fin da subito le imprese hanno segnalato e avvertito una notevole difficoltà nel dover approntare, con ripercussioni anche di tipo economico, nuove misure precauzionali utili a contenere un rischio che non è intimamente connesso alla specifica attività lavorativa svolta, ma è un comune rischio biologico che spesso non nasce all’interno dei luoghi di lavoro, ma vi entra portato dall’esterno.
In altre parole, le figure datoriali e dirigenziali hanno dovuto prendere atto dell’inadeguatezza dei documenti di valutazione dei rischi, già obbligatori ex D.lgs. 81/2008, dei codici etici, dei M.O.G. ex D.lgs. 231/2001 (non obbligatori, ma raccomandabili specie per le strutture aziendali più complesse) e più in generale dei protocolli di sicurezza in precedenza adottati, inidonei a fronteggiare il nuovo rischio derivante dalla diffusione del Coronavirus.
Alla preoccupazione per gli investimenti economici sottesi alla riorganizzazione del lavoro in fase di emergenza sanitaria, si è accompagnato il comprensibile timore determinato dalle responsabilità di tipo civile e penale in cui potrebbe incorrere il datore, da solo o in concorso con altre figure responsabili della salute e sicurezza negli ambienti di lavoro.
Tanto più che l’art. 42 del D.L. 18/2020 ha qualificato l’infezione da COVID-19 contratta “in occasione di lavoro” come un’ipotesi di infortunio.
Non è, pertanto, peregrina la previsione di un crescente numero di contenziosi nel prossimo periodo a carico delle figure datoriali e non solo.
Si immagini, infatti, il caso in cui il lavoratore o un cliente subiscano lesioni personali, o peggio la morte, a causa del contagio da Coronavirus; in tali ipotesi, il datore di lavoro o dirigente della società, anche eventualmente in concorso con altri (quali preposti alla sicurezza, responsabili del servizio di prevenzione e protezione etc..), potrà essere chiamato a rispondere dei reati di cui agli artt. 589-590 c.p. alla ricorrenza di determinate condizioni.
Le responsabilità penali potrebbero conseguire all’accertamento giudiziale di una condotta colposa per omessa previsione e efficace attuazione dei protocolli ANTI-COVID, che abbia determinato, quale causa o concausa, l’evento dannoso; purché evidentemente venga dimostrato che il contagio possa dirsi avvenuto in occasione del lavoro, o comunque all’esito di una visita presso i locali dell’impresa.
Il presente contributo, senza pretese di esaustività, intende esaminare le disposizioni normative principali che impongono obblighi per la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e prevedono responsabilità penali per i titolari di tali posizioni di garanzia.
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- La responsabilità penale del datore di lavoro: obblighi in materia di sicurezza e posizione di garanzia
È necessario, quindi, prendere le mosse dalla norma di carattere generale contenuta nell’art. 2087 c.c. secondo cui «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
Tale disposizione si riempie di contenuto alla luce di altre norme dell’ordinamento che disciplinano e sanzionano le responsabilità del datore di lavoro.
Tra queste va operato un richiamo al D.lgs. n. 81/2008 (Testo Unico sulla Salute e Sicurezza sul Lavoro), nello specifico, e in via meramente esemplificativa, alle disposizioni che impongono al datore di lavoro di adottare e dare efficace attuazione ai DVR (documento di valutazione dei rischi), mappare le aree di rischio specifico connesso alla natura delle attività esercitate, approntare misure preventive a tutela del lavoro (artt. 17-18-28).
La violazione di tali prescrizioni può portare alla contestazione dei reati previsti dall’art. 55 D.lgs. 81/2008.
A tali figure contravvenzionali contenute in leggi speciali si aggiungono altre fattispecie di reato previste nel codice penale volte a tutelare l’incolumità nei luoghi di lavoro, ed in particolare l’art. 437 c.p. “Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro” che punisce chiunque intenzionalmente rimuove ovvero omette di adottare misure antiinfortunistiche e l’art. 451 c.p. “ Omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro” che sanziona le medesime condotte compiute in forma colposa.
Come supra anticipato, qualora a causa del mancato rispetto degli obblighi normativi – già esistenti ovvero introdotti dall’emergenza epidemiologica in corso – in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro si sia verificato un episodio di contagio del virus in ambiente lavorativo, il datore di lavoro potrà incorrere nella contestazione di ulteriori reati disciplinati nel codice penale.
L’omissione di tali cautele infatti potrebbe integrare un profilo di colpa specifica rilevante ex artt. 589 co.2 e 590 co. 3 c.p. che puniscono l’omicidio colposo e le lesioni colpose commessi in violazione della normativa a tutela della sicurezza sul lavoro.
In altre parole, il datore di lavoro in virtù della sua posizione assume l’obbligo giuridico di impedire che chi entra in contatto con l’ambiente lavorativo contragga il Covid. Dal mancato rispetto di tale obbligo può discendere, in forza della cosiddetta clausola di equivalenza, di cui all’art. 40, comma 2, c.p., una responsabilità penale per le fattispecie suindicate.
Giova evidenziare peraltro che la posizione di garanzia assunta dal datore di lavoro, e i conseguenti obblighi, sono volti a tutelare non solo i lavoratori ma anche i terzi che entrano in contatto con la realtà aziendale (es. clienti, fornitori, etc.).
Invero dell’infortunio che sia occorso al terzo estraneo risponde il garante della sicurezza, sempre che l’infortunio rientri nell’area di rischio definita dalla regola cautelare violata e che il terzo non abbia posto in essere un comportamento di volontaria esposizione a pericolo (Cassazione Penale Sezione IV, 17 giugno 2014, n. 43168,).
D’ altra parte è doveroso evidenziare come debba comunque evitarsi ogni forma di automatismo nel riconoscere la responsabilità per contagio da Covid-19 nei luoghi di lavoro.
Per affermare la responsabilità del titolare della posizione di garanzia, infatti, andrà, in primo luogo, ricostruito il nesso causale tra la condotta colposa del garante della sicurezza e la malattia o il decesso da Covid-19, con esclusione di fattori causali alternativi; in secondo luogo, occorrerà provare la sussistenza dell’elemento soggettivo quale prevedibilità ed evitabilità dell’evento.
È da escludersi invece la configurabilità a carico del datore di lavoro di una responsabilità per epidemia colposa, ai sensi dell’art. 452 c.p., in relazione al 438 c.p., che punisce “chiunque per colpa (a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline) cagiona una epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”.
Invero secondo l’insegnamento della Suprema Corte di Cassazione la clausola di equivalenza suindicata non può operare con riferimento al reato di epidemia colposa, stante la natura giurdica di reato commissivo a forma vincolata: “In tema di delitto di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l’art. 438 c.p., con la locuzione «mediante la diffusione di germi patogeni», richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40 co. 2 c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera” (Cassazione Penale Sez IV, n. 9133/2017).
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- La responsabilità della Società ex d.lgs. n. 231/2001 per la diffusione del Covid
3.a Ratio della normativa e natura della “responsabilità amministrativa da reato”
Ulteriore profilo oggetto d’indagine è se le condotte illecite sopra descritte possano determinare anche la responsabilità da reato dell’Ente ex D.lgs. n. 231/2001.
Come noto, tale disciplina è stata adottata dal Legislatore per colmare una lacuna normativa esistente nel nostro ordinamento, anche alla luce degli input provenienti da fonti sovranazionali e dal panorama comunitario.
In altri termini, si è preso atto che l’illecito consumato da soggetti a vario titolo incardinati in un organigramma aziendale, specie se di tipo complesso, è spesso il risultato non di scelte individuali, ma di politiche societarie; quindi di scelte strumentali a soddisfare interessi criminosi superiori, sfornite di adeguate sanzioni.
In tale ottica, l’intervento normativo ha inteso evitare che la struttura societaria potesse costituire uno schermo per la responsabilità dell’Ente, ove gli illeciti consumati dal singolo ne avessero favorito gli interessi, o consentito la realizzazione di profitti illeciti e la loro conseguente dispersione.
L’impianto disciplinato dal D.lgs. n. 231/2001 è certamente dirompente, a fronte di un principio fino a quel momento valido per cui “societas delinquere non potest”; ascrivere una responsabilità da reato ad un ente, ovvero una struttura artificiale e rarefatta, pareva confliggere con la personalità della responsabilità penale ex art. 27 della Costituzione e con il concetto di imputabilità, quale presupposto della colpevolezza, con il rischio di legittimare forme di responsabilità oggettiva o per fatto altrui.
La problematica è stata presto superata facendo ricorso alla teoria dell’immedesimazione organica, per cui l’illecito realizzato dal singolo, incardinato in un ente collettivo, in attuazione di una politica aziendale, diventa un fatto proprio dell’Ente e genera un’autonoma responsabilità “penale” in capo a quest’ultimo.
La responsabilità dell’Ente è, pertanto, autonoma rispetto a quella del soggetto che abbia materialmente realizzato la condotta illecita, tanto più che il soggetto collettivo potrà subire un processo anche qualora l’autore del reato non sia stato identificato o non sia imputabile.
La maggior parte degli orientamenti, invero, concorda nel ritenere che, nonostante la rubrica (che menziona una responsabilità “amministrativa da reato”), il D.lgs. n. 231/2001 abbia disciplinato una responsabilità a tutti gli effetti di tipo penale, tenuto conto dei principi generali in esso richiamati e soprattutto dell’afflittività delle sanzioni che possono essere irrogate nei confronti dei soggetti collettivi.
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3.b Ambito di operatività e presupposti applicativi
Ai sensi dell’art. 1 il decreto in commento si applica “…agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica. Non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”.
Ulteriore requisito per poter predicare la responsabilità dell’Ente è che il reato consumato dal singolo sia stato commesso nell’ “interesse dell’ente”[1], o abbia realizzato un “vantaggio dell’ente” [2]; ne consegue che la “societas” non potrà rispondere quando dimostri che l’illecito abbia soddisfatto un interesse esclusivo proprio dell’autore materiale del reato o di terzi.
Da un punto di vista soggettivo la colpevolezza dell’Ente è stata individuata in una “colpa di organizzazione”, ovvero nell’inottemperanza all’obbligo di approntare efficaci misure organizzative e gestionali, finalizzate a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
L’eventuale affermazione della responsabilità ex 231/2001 (attraverso la contestazione dei reati presupposto espressamente previsti dal “catalogo” normativo) potrà determinare l’irrogazione di gravi sanzioni pecuniarie, interdittive, oltreché la confisca e la pubblicazione della sentenza di condanna.
Il Legislatore, invero, ha disegnato un sistema sanzionatorio di graduale afflittività, nell’ottica di evitare che la risposta punitiva possa risultare non deterrente; occorrerà, quindi, modulare le sanzioni tenuto conto delle capacità economiche dell’Ente, della gravità dei reati commessi al suo interno, delle condotte messe in campo per eliminare, o quantomeno ridurre le conseguenze prodotte dall’illecito.[3]
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3.c I modelli di organizzazione e gestione dell’Ente: tra opportunità e necessità
Occorre, tuttavia, fugare il dubbio che la responsabilità del soggetto collettivo consegua sempre e automaticamente all’accertamento della responsabilità individuale in capo all’autore materiale del reato; in tale ottica assumono particolare rilievo i M.O.G. (modelli di organizzazione e gestione dell’Ente), strumenti previsti dal decreto in esame, utili a esimere il soggetto collettivo da penale responsabilità, o comunque ridurla.
Tale documento racchiude i risultati di un’attività preventiva svolta dall’Ente (anche mediante l’ausilio di altri soggetti preposti alla sicurezza, quali l’Organismo di Vigilanza, il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione etc..) che consta di una preliminare individuazione delle principali aree aziendali in cui si annida il rischio di commissione dei reati, e di una successiva attività di analisi, previsione e concreta adozione di misure precauzionali a contrasto dei pericoli rilevati.
L’importanza di adottare e aggiornare i M.O.G. è tanto più evidente se solo si richiama il disposto dell’art. 6 D.lgs. 231/2001, che codifica una vera e propria esimente, valida sia per l’ipotesi in cui il reato sia stato commesso da soggetti in posizione apicale (quindi con funzioni di direzione e controllo dell’Ente), sia da parte di soggetti sottoposti all’altrui direzione e vigilanza.[4]
Le brevi e generali premesse sull’impianto normativo introdotto dal D.lgs. 231/2001 sono necessarie per comprendere le conseguenze cui si espongono i soggetti collettivi che non abbiano già adottato i Modelli Organizzativi e Gestionali, che, sebbene non obbligatori, sono raccomandabili, tanto più in questa fase di emergenza sanitaria.
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3.d La responsabilità dell’Ente ex d.lgs. 231/2001 in relazione alle ipotesi di contagio da Covid in ambiente lavorativo (art. 25 septies)
In ogni caso, il rischio della diffusione del contagio da COVID-19 determinerà un necessario aggiornamento dei M.O.G., ove già predisposti, onde approntare nuovi protocolli di sicurezza.
Come anticipato, non è remota la possibilità che un impiegato di una società, di un’associazione (quindi anche le società tra avvocati, o multidisciplinari, o le associazioni professionali) o un cliente possa lamentare di aver riportato un danno per aver contratto il coronavirus all’interno dei locali aziendali.
In tali ipotesi, alla contestazione dei reati di cui all’art. 590 c.p. o, nei casi più estremi, di cui all’art. 589 c.p. nei confronti dell’autore materiale dell’illecito, si potrà accompagnare l’imputazione dell’Ente in relazione alla fattispecie criminosa prevista dall’art. 25-septies D.lgs. 231/2001. [5]
Tale articolo, introdotto dalla L. 123/2007, disciplina diverse ipotesi;
– il 1° comma prevede la penale responsabilità del soggetto collettivo per l’omicidio colposo commesso con violazione dell’art. 55, comma 2 D.lgs. 81/2008.
Quest’ultima disposizione sanziona le inottemperanze del datore di lavoro rispetto ad attività non delegabili e obbligatorie per assicurare la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro; tra queste il riferimento è alla preventiva valutazione ed individuazione dei rischi connessi all’esercizio del lavoro, alla previsione e adozione di misure a contrasto dei pericoli identificati, e non da ultimo, all’obbligo di approntare un DVR (documento di valutazione dei rischi) e aggiornarlo.
La condanna per tale ipotesi determinerà l’irrogazione di una sanzione pecuniaria fissa pari a 1.000 quote, per un valore quindi compreso tra € 258.230,00 euro a € 1.549.370,00 in base alle capacità economiche e finanziarie dell’Ente. A questa si aggiungerà una delle sanzioni interdittive previste dall’art. 9, comma 2, D.lgs. 231/2001 per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.
– Il 2° comma disciplina la responsabilità dell’Ente per l’omicidio colposo determinato dalla violazione di altre norme predisposte a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (quindi diverse dalle ipotesi cui fa riferimento l’art. 55, comma 2 D.lgs. 81/2008), prevedendo una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a 250 quote (da € 64.557,50 a € 387.342,50) e non superiore a 500 quote (da € 129.115,00 a € 774.685,00), oltre alle medesime misure interdittive previste al comma precedente.
– Il 3° comma contempla l’ipotesi della responsabilità dell’Ente per la fattispecie di lesioni personali colpose gravi o gravissime (ex art. 583 c.p.) consumata in violazione delle norme a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Alla condanna seguirà l’irrogazione di una sanzione pecuniaria non superiore a 250 quote (quindi compresa tra un valore monetario da € 64.557,50 a € 387.342,50), oltre alle sanzioni interdittive per un periodo non superiore ai sei mesi.
Come anticipato, la responsabilità ex 231/2001 potrà conseguire all’accertamento dei requisiti soggettivi e oggettivi previsti dalla normativa in esame; ovvero la dimostrazione di una “colpa di organizzazione”, consistita nell’omessa o carente adozione dei protocolli per la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e la realizzazione di un interesse, o vantaggio dell’Ente.
La prima difficoltà interpretativa è stata rilevata proprio in relazione ai concetti di interesse e vantaggio; in altri termini, ci si domandava come l’evento morte o lesioni potesse tradursi in un vantaggio per il soggetto collettivo.
Una buona parte della giurisprudenza, intervenuta poco l’introduzione dell’art. 25-septies, ha precisato che l’Interesse o Vantaggio devono essere valutati con esclusivo riferimento al momento di consumazione della condotta inosservante degli obblighi di sicurezza, e non guardando all’intera fattispecie di reato.[6]
Aderendo a questo orientamento giurisprudenziale, pertanto, l’interesse dell’Ente potrà dirsi perseguito quando il reato sia il risultato di una scelta aziendale (che quindi non è propria dell’autore materiale del reato), incurante e disinteressata alla tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Viceversa una fattispecie di reato potrà tradursi in un vantaggio quando l’Ente abbia tratto un’utilità, apprezzabile oggettivamente, anche in termini di un risparmio delle spese necessarie per l’adozione di protocolli e dispositivi di protezione e prevenzione per la salute e sicurezza dei lavoratori (Cass. Sez. VI n. 32626/2006; conf. Cass. Pen., Sez. 4, 16 luglio 2015, n. 31003).
É quindi necessario che l’affermazione della penale responsabilità ex D.lgs. 231/2001 sia il risultato di carenze organizzative interne all’Ente, frutto di una consapevole scelta aziendale.
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3.e La rilevanza dei Mog in tema di sicurezza sul lavoro e i protocolli Anti-COVID
Come anticipato l’omessa adozione e efficace attuazione dei modelli organizzativi e gestionali, implementati delle misure cd. Anti-COVID, potrebbe determinare una responsabilità per il reato di cui all’art. 25-septies D.lgs. 231/2001.
Tenuto conto dell’afflittività delle sanzioni comminate dal D.lgs. citato è quanto più opportuno che i soggetti collettivi cui si applica la normativa si adeguino al “protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” siglato dal Governo e dalle parti sociali in data 14/03/2020 e poi aggiornato in data 24/04/2020.
I menzionati protocolli, evidentemente da adattare alle diverse realtà aziendali, sono stati resi obbligatori – pena la sospensione dell’attività – e, quindi, vincolanti in quanto richiamati nei DPCM emanati nell’ultimo periodo, l’ultimo dei quali in data 27/04/2020.
In particolare il protocollo siglato in 24/04/2020 prevede sostanzialmente, quale principale misura di contenimento alla diffusione del contagio, il distanziamento sociale, l’agevolazione delle modalità di lavoro agile, il ricorso agli ammortizzatori sociali e, in subordine, specifiche precauzioni comportamentali da attuare all’interno dell’azienda per l’utenza e per i lavoratori.
L’adesione spontanea ai protocolli, oltre che doverosa, consente all’Ente anche di accedere ad una serie di benefici previsti dal D.lgs. 231/2001, tra cui la possibilità di ottenere una riduzione della sanzione pecuniaria e interdittiva ex art. 10, comma 4, d.lgs. citato; ciò purché il soggetto collettivo, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, dimostri di aver adottato e reso operativo un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
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3.f La responsabilità dell’Ente in relazione ai delitti informatici e trattamento illecito di dati (art. 24 bis)
La riorganizzazione del lavoro in fase di emergenza sanitaria, specie mediante l’incentivazione dello smart working, apre la strada alla contestazione di un altro reato presupposto disciplinato all’art. 24-bis D.lgs. 231/2001 in tema di “Delitti informatici e trattamento illecito di dati” [7] introdotto dalla L. 48/2008.
La fattispecie in esame rimanda nei suo vari commi alla realizzazione dei reati di “Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico” (art. 615 ter c.p.), “Detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici” (art. 615 quater c.p.), “Diffusione di apparecchiature, dispositivi o programmi informatici diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico o telematico” (art. 615 quinquies c.p.), “Intercettazione, impedimento o interruzione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche” (art. 617 quater c.p.), “Installazione di apparecchiature atte ad intercettare, impedire od interrompere comunicazioni informatiche o telematiche” (art. 617 quinquies c.p.), “Danneggiamenti di informazioni, dati e programmi informatici” (art. 635 bis c.p.), “Danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici utilizzati dallo Stato o da altro ente pubblico o comunque di pubblica utilità” (art. 635 ter c.p.), “Danneggiamento di sistemi informatici o telematici” (art. 635 quater c.p.), “Danneggiamento di sistemi informatici o telematici di pubblica utilità” (art. 635 quinquies c.p.), “Documenti informatici” (art. 491 bis c.p.) e “Frode informatica del soggetto che presta servizi di certificazione di firma elettronica” (art. 640 quinquies c.p.).
Alle sanzioni pecuniarie che vanno da un minimo di cento ad un massimo di cinquecento quote, a seconda dell’ipotesi delittuosa contestata (quindi per un valore da € 25.800,00 a € 774.500,00), si accompagna l’applicazione a carico dell’Ente delle sanzioni interdittive previste dall’art. 9 del d.lgs. citato.
Anche in tale ambito l’adozione di adeguati protocolli disciplinanti il lavoro da remoto e la protezione dei dati e la compiuta vigilanza sul funzionamento e aggiornamento degli stessi potrà consentire all’Ente di andare esente da responsabilità ex art. 231/2001.
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- Note conclusive
Ultima questione che si intende attenzionare è l’applicabilità della normativa introdotta dal D.lgs. 231/2001 anche alle imprese individuali, considerato che l’art. 1 parrebbe far riferimento solo a strutture più complesse e organizzate in forma societaria, o comunque associativa (cfr. Cass., sez. II, 4 novembre 2015, n. 44512, che ha ritenuto un’associazione tra dottori commercialisti destinataria della normativa in questione).
Il rischio paventato è che, in tali casi, sia piuttosto complicato distinguere quando l’illecito possa costituire il risultato di un’autonoma scelta criminale dell’autore materiale del reato e quando, al contrario, possa dirsi il frutto di una politica aziendale.
Di qui la problematica avvertita da molti giuristi riguardo il rischio di una duplicazione di responsabilità e della violazione del ne bis in idem, e quindi di sottoporre a doppio processo uno stesso soggetto per il medesimo fatto criminoso.
Allo stato non esiste una risposta univoca, ma a parere di chi scrive sembra più convincente la tesi giurisprudenziale che tende ad escludere dal novero dei soggetti attivi le imprese individuali. Sul punto un’interessante pronuncia è quella della Cassazione Penale, sez. VI, sentenza 22/04/2004 n° 18941, nella quale si afferma che l’estensione alle imprese individuali costituirebbe un’analogia in malam partem, vietata dall’art. 25, comma 2, della Costituzione.
In senso conforme si è espressa la sentenza della Suprema Corte n. 30085/12, secondo cui il d.lgs. 231/2001 si riferisce in via esclusiva ai “soggetti collettivi”, quindi non alle imprese individuali.
Un’inversione di rotta proviene dalla sentenza n. 15657/2011 della III° Sezione Penale della Corte di Cassazione, la quale ritiene che anche le imprese individuali possano rispondere per i reati presupposto di cui al d.lgs. citato, in quanto assimilabili ad una persona giuridica e diversificati da una ditta individuale.
Per molti commentatori il ragionamento seguito dalla III° sezione penale è risultato poco lineare e, per questo, non convincente.
Nell’incertezza interpretativa è certamente auspicabile un intervento chiarificatore da parte delle Sezioni Unite della Suprema Corte.
Vero è che includere anche le imprese individuali nel novero dei soggetti interessati dalla normativa in commento potrebbe determinare una violazione di alcuni principi che governano il processo penale (ne bis in idem, divieto di analogia in malam partem); inoltre, tale soluzione esporrebbe imprese con organizzazioni aziendali piuttosto semplici ad un onere troppo gravoso, sia in termini economici , sia sul piano delle conseguenze sanzionatorie, che risulterebbero eccessivamente afflittive e sproporzionate.
É altrettanto evidente, ad ogni modo, che l’emergenza sanitaria in corso deve indurre tutti i soggetti che operano sul mercato, indipendentemente dalla struttura organizzativa e dalla forma giuridica adottata, ad improntare la gestione dell’attività al rispetto di ogni cautela contro il rischio derivante dalla diffusione del contagio (quindi adottare e attuare concretamente il protocollo di regolamentazione del 24/04/2020, reso obbligatorio dal DPCM del 27/04/2020) e al buon senso.
Contributo scientifico realizzato dal Dipartimento del Diritto Penale, a firma degli Avvocati
Elisa Davanzo, Roberto Tartaro, Salvatore Celso, Maria Manganiello, Manuela Martinangeli, Alessio Nunziante
[1] Da verificare mediante accertamento ex ante della tensione finalistica della condotta umana a realizzare una politica aziendale.
[2] Da verificare mediante attraverso un accertamento ex post, non dovendo il “vantaggio” necessariamente coincidere con il concetto di profitto, ma potendo consistere anche in un risparmio di spesa derivante dal non aver approntato le misure precauzionali opportune.
[3] Per tale ragione il d.lgs. 231/2001 ha introdotto sanzioni pecuniarie, sempre applicabili, strutturate secondo il sistema bifasico delle quote; ovvero in prima battuta il Giudice dovrà determinare il numero delle quote, da un minimo di cento ad un massimo di mille, tenuto conto della gravità del reato consumato e delle condotte poste in essere per prevenire la commissione dell’illecito, o contenerne gli effetti. In una seconda fase si dovrà determinare il valore monetario di ciascuna quota, da un minimo di € 258,00 ad un massimo di € 1.549,00, tenuto conto delle condizioni economiche e patrimoniali dell’Ente.
Alla sanzione pecuniaria potrà accompagnarsi, nei casi più gravi, una sanzione interdettiva, dall’interruzione dell’attività, alla sospensione di licenze e autorizzazioni, sino a quella prevista in via di extrema ratio della chiusura definitiva dell’Ente.
[4] Nel primo caso il soggetto collettivo potrà andare esente da responsabilità ove dimostri di aver “…adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
- b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo”.
Nel secondo caso, qualora dia prova che l’illecito è stato realizzato da sottoposti eludendo “… fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera”.
[5] che così dispone:
“Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro:
- In relazione al delitto di cui all’articolo 589 del codice penale, commesso con violazione dell’articolo 55, comma 2, del decreto legislativo attuativo della delega di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura pari a 1.000 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.
- Salvo quanto previsto dal comma 1, in relazione al delitto di cui all’articolo 589 del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a 250 quote e non superiore a 500 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.
- In relazione al delitto di cui all’articolo 590, terzo comma, del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non superiore a 250 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non superiore a sei mesi”.
[6] in questo senso Tribunale di Trani, Sez. distaccata di Molfetta, 26.10.2009 (dep. 11.01.2010); conf. Tribunale di Pinerolo 23.09.2010; Tribunale di Novara 1.10.2010; Tribunale di Tolmezzo 23.01.2012 (dep. 3.02..2012).
[7] La norma così dispone:
In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 615-ter, 617-quater, 617-quinquies, 635-bis, 635-ter, 635-quater, 635-quinquies terzo comma, del codice penale, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da cento a cinquecento quote.
- In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 615-quater e 615-quinquies del codice penale, si applica all’ente la sanzione pecuniaria sino a trecento quote.
- In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 491-bis e 640-quinquies del codice penale, salvo quanto previsto dall’articolo 24 del presente decreto per i casi di frode informatica in danno dello Stato o di altro ente pubblico, si applica all’ente la sanzione pecuniaria sino a quattrocento quote.
- Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nel comma 1 si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, lettere a), b) ed e). Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nel comma 2 si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, lettere b) ed e). Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nel comma 3 si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, lettere c), d) ed e)”.
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