
CONTRIBUTO SCIENTIFICO
03 Dicembre 2020
IL REATO DI ABUSO D’UFFICIO ALLA LUCE DELLE MODIFICHE CONTENUTE NEL C.D. DECRETO SEMPLIFICAZIONI
Il delitto di abuso d’ufficio è disciplinato nel nostro codice penale dall’art. 323, tra i delitti contro la pubblica amministrazione commessi dai pubblici ufficiali.
L’art. 323, nella sua formulazione attuale, per come modificato dal D.L. n. 76/2020, recita testualmente “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità” (Si tratta di un’aggravante speciale ad effetto comune con un aumento di pena fino ad un terzo ai sensi dell’art. 64 c.p.).
Prima della recente novella contenuta nel D.L. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni), la disciplina di cui all’art. 323 c.p. era già stata oggetto di una duplice riforma, dapprima con la L. 86/1990 e, successivamente, con la L. 234/1997 (v. anche la l. 6 novembre 2012 n. 190, che tuttavia ha investito solo gli aspetti sanzionatori).
Le modifiche introdotte dalla L. 86/1990 hanno riguardato il riferimento “all’ingiustizia del vantaggio o del danno”, dando luogo ad un diverso trattamento sanzionatorio tra il caso di abuso compiuto con la finalità di ottenere un vantaggio patrimoniale e l’ipotesi dell’abuso realizzato con mera volontà di prevaricazione. Tuttavia queste modifiche avevano posto il problema della misura del controllo del giudice penale sugli atti della PA.
Sennonché, allo scopo di delimitare la sfera del penalmente rilevante, con la riforma del 1997 il legislatore ha apportato ulteriori modifiche; in particolare ha richiesto “l’intenzionalità” del vantaggio o del danno perseguito ed ha ancorato l’abusività della condotta alla “violazione di leggi o regolamenti”.
Procedendo ad un’analisi generale della fattispecie, ci soffermeremo in particolare sulle novità che il Decreto Semplificazioni ha comportato.
Con riguardo al bene giuridico tutelato dalla norma, l’orientamento prevalente, confortato anche dalla giurisprudenza ( ex multis Cass., sez. VI, 52009/2014), sostiene la natura plurioffensiva della fattispecie nel senso che l’interesse tutelato dalla norma sarebbe non solo il buon andamento e imparzialità della PA ex art. 97 ma anche il patrimonio del terzo danneggiato, che andrebbe quindi considerato quale p.o. dal reato.
Per quanto riguarda il soggetto del reato, l’abuso d’ufficio è annoverato tra i reati contro la P.A. e si tratta di reato proprio in quanto il soggetto attivo è il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio.
La natura di reato proprio dell’art. 323 c.p. non esclude la possibilità di configurare anche un concorso del privato, ove si provi che il provvedimento amministrativo è riconducibile alla collusione con il p.u.
Per quanto concerne l’individuazione dell’elemento oggettivo, lo stesso è da ricondursi all’ingiusto vantaggio patrimoniale o nel danno ingiusto, trattandosi quindi di reato d’evento. Il riferimento esplicito al vantaggio patrimoniale esclude certamente che possano rilevare, ai fini del perfezionamento del reato, vantaggi di altra natura (morale, ecc.), mentre il “danno” non riguarda solo situazioni soggettive di carattere patrimoniale.
L’ingiusto vantaggio patrimoniale ed il danno ingiusto, poi, sono tra loro alternativi.
Inoltre, per essere rilevante ai sensi dell’art. 323 c.p., l’ingiustizia deve qualificare sia il vantaggio, sia il danno, ossia devono rispondere alla doppia condizione di essere prodotti per mezzo di un atto illegittimo, e di essere contrari all’ordinamento giuridico.
Ulteriore specificazione che non può essere trascurata è la circostanza per cui la condotta per essere punita deve essere posta in essere dal p.u. o dall’incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle loro funzioni, rimanendo indifferente alla fattispecie di cui trattasi, le condotte commesse in ambito privato.
Con riferimento all’elemento soggettivo del reato, siamo al cospetto di un reato di evento a dolo generico. L’avverbio “intenzionalmente” è indicativo di un’assoluta omogeneità tra momento rappresentativo e momento volitivo, con esclusione, quindi, della rilevanza del dolo eventuale.
Si è discusso, inoltre, del caso in cui con il fine illecito concorra l’intento del soggetto attivo di realizzare anche l’interesse pubblico. L’orientamento prevalente ritiene che la mera compresenza del fine pubblico non valga ad escludere per ciò sola l’intenzionalità dell’ingiusto vantaggio o danno; a questa impostazione ha aderito la Consulta che, con ordinanza n. 251/2006, precisa che “non è sufficiente che l’imputato abbia perseguito il fine pubblico accanto a quello privato affinché la sua condotta, ancorché illecita dal punto di vista amministrativo, non sia soggetta a sanzione penale, ma è necessario che egli abbia perseguito tale fine pubblico come proprio obbiettivo principale”. La conseguenza di quanto statuito dal Giudice delle Leggi è la “degradazione del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale a mero dolo diretto (semplice previsione dell’evento) od eventuale (mera accettazione del rischio della verificazione dell’evento)”.
Infine, in merito agli oneri probatori la Cassazione ha precisato che “la prova dell’intenzionalità del dolo esige l’acquisizione di elementi idonei a radicare la certezza che la volontà dell’imputato sia stata orientata” alla realizzazione dell’evento rilevante ex art. 323 c.p. La Suprema Corte aggiunge “tale certezza non può derivare esclusivamente dal comportamento non iure dell’agente ma deve essere inferita anche da altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale dell’agente, l’apparato motivazionale su cui si fonda il provvedimento e i rapporti personali tra il pubblico ufficiale e il soggetto che riceve vantaggio patrimoniale o subisce danno” (Cass., sez. fer., 18 novembre 2013, n. 46151).
Per quel che concerne invece l’analisi della condotta, non potranno ignorarsi le recentissime modifiche apportate da c.d. Decreto Semplificazioni (D.L.76/2020) che, stante la necessità, fortemente evidenziata dalla pandemia in atto, di snellire le procedure amministrative, con un intervento mirato è andato ad affrontare il problema della c.d. “paura di firma” dei pubblici dipendenti, che spesso si è riscontrato a causa delle conseguenze amministrative, contabili e penali di cui gli stessi sono stati destinatari.
Il D.L. 76/2020 è intervenuto sull’art. 323 modificando l’originaria formulazione del comma 1 nella parte in cui recitava: Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento…..) sostituendo le parole “norme di legge o di regolamento” con le parole “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Già da una semplice lettura appare del tutto evidente come ci si trovi dinnanzi ad una sostanziale abolitio criminis parziale, il legislatore ha infatti ristretto il campo del penalmente rilevante alle sole violazioni di regole di condotta specificamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, specificando inoltre di escludere quelle condotte poste in essere nell’ambito della discrezionalità amministrativa.
Pertanto non possono più considerarsi rilevanti condotte che violino regolamenti o che possano essere ritenute violative di regole di condotta, pur se poste quale parametro di legalità da altre fonti anche di rango superiore.
A tal proposito si pensi, per esempio, a quell’orientamento che riteneva configurabile il reato di cui trattasi, avendo quale parametro di riferimento esclusivamente l’art. 97 della Costituzione.
Con tale modifica si è quindi sottratto al sindacato del Giudice penale quel comportamento del p.u. che risultasse eventualmente affetto da eccesso di potere (che nella sua accezione amministrativistica indica l’esercizio del potere per un fine diverso da quello per cui è stato conferito), sino ad oggi ritenuto sintomatico di violazione di legge in relazione alla norma attributiva del potere.
Di fatto la norma precedente consentiva al Giudice penale un sindacato anche sulla discrezionalità amministrativa, facoltà oggi esplicitamente esclusa dal testo della novella.
L’esclusione dei regolamenti, tra le norme la cui violazione comporterebbe rilevanza penale, non pone particolari problemi in relazione alle condotte attive. A voler però “tagliare il capello”, un interrogativo potrebbe invece sorgere in relazione alle fattispecie di violazione dell’obbligo di astensione, in quanto potrebbe risultare poco chiaro se la novella riguardi anche tale fattispecie.
Per comprendere la portata della questione, come già osservato da alcuni giuristi, è sufficiente prendere in considerazione la violazione di un divieto di astensione posto da una norma regolamentare.
Certamente dovremo aspettare che intervengano le prime pronunce pretorie, ma, a parere di chi scrive, un’interpretazione che tenda ad escludere le ipotesi di violazione del divieto di astensione, dall’applicazione della novella, presterebbe il fianco a questioni di legittimità costituzionale, stante la disparità di trattamento nei confronti di soggetti che pongano in pericolo il medesimo bene, con condotte che il legislatore ha, evidentemente, valutato della medesima gravità.
Alla luce di quanto sopra, si evidenzia come, le modifiche di cui trattasi, abbiano in buona parte sottratto al deterrente della sanzione penale numerose ipotesi di abuso, poichè nella prassi, la disciplina delle regole di condotta specifiche del p.u. sono spesso demandate a fonti regolamentari e non alla legge o ad atti aventi forza di legge.
In conclusione si rileva come interventi legislativi di questo tipo, in evidente controtendenza con il trend seguito, per esempio, con provvedimenti come la cosiddetta “spazzacorrotti”, abbiano il pregio di contribuire al raggiungimento dell’auspicato obbiettivo di avere una Pubblica Amministrazione più efficiente, che limiti al minimo la cosiddetta “burocrazia difensiva”, concausa della sempre minore competitività e attrattività internazionale del nostro Paese.
A cura del Dipartimento di Diritto Penale della Fondazione Aiga Tommaso Bucciarelli a firma degli avvocati:
Elisa Davanzo, Roberto Tartaro, Salvatore Celso, Maria Manganiello, Manuela Martinangeli, Alessio Nunziante.

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