CONTRIBUTO SCIENTIFICO
04 Maggio 2020
IL CARCERE AL TEMPO DEL CORONAVIRUS
Il rischio di contagio nelle carceri, ambiente chiuso per eccellenza, è assai elevato e ciò potrebbe comportare una vera e propria catastrofe. Purtroppo, allo stato, gli istituti penitenziari non sono in grado di fare osservare – per ragioni oggettive – le norme di sicurezza per il contenimento del contagio da Covid-19.
Oltre al senso di restrizione che pervade le celle e i corridoi delle carceri in quanto tali, si aggiunge la paura per quel nemico invisibile, rappresentato dal coronavirus, che potrebbe entrare proprio in quei luoghi.
Sono oramai tristemente note le condizioni di vita carceraria, il sovraffollamento e la prossimità negli spazi tra i detenuti, così come anche la carenza di personale di polizia penitenziaria rispetto alle esigenze dei numerosi carceri italiani.
Se da un lato, sono stati approntati provvedimenti – come le restrizioni dei detenuti in semilibertà, la drastica interruzione dei colloqui con i familiari e gli apporti delle diverse associazioni – dall’altro, vi è l’assenza di misure volte a tutelare i detenuti dal contagio, che potrebbe derivare dagli operatori provenienti dall’esterno.
Le suddette restrizioni hanno letteralmente fatto esplodere una situazione già da tempo molto critica. Nei primi giorni del mese di marzo, infatti, alcuni detenuti hanno manifestato, in maniera piuttosto violenta, per le condizioni di sovraffollamento, per l’alta probabilità di contagio e per la mancanza di informazioni circa lo stato di salute dei propri cari fuori dalle mura del carcere. Sono stati ben 49 gli istituti coinvolti nelle suddette rivolte, che hanno portato alla morte di 13 detenuti – quasi tutti stranieri – e di 59 feriti, tra i quali alcuni agenti di polizia penitenziaria (9 detenuti a Modena, di cui 4 dopo il trasferimento; 3 a Rieti; 1 a Bologna).
L’annosa questione “carceri” ci impone di non rimanere inermi dinanzi alle mistificazioni circa le misure da adottare per risolvere tale emergenza che, come di consueto, e anche in questa occasione, pare essere considerata questione di secondo ordine.
La paura, l’incertezza, la scarsa informazione, l’isolamento dagli affetti ha esasperato la condizione dei detenuti, che è sfociata in momenti di violenza, rivolta, disperazione e repressione, episodi questi che ci hanno riportato molto indietro nel tempo.
Incendi, devastazione, evasioni e morte ecco cosa è rimasto della rivolta: se da un lato, il ricorso alla violenza da parte dei reclusi – quale strumento in grado di attirare l’attenzione delle istituzioni – deve essere condannato, dall’altro lato non può non imporsi una riflessione sulle motivazioni e condizioni che l’hanno ingenerata.
Questa rimarrà, senza ombra di dubbio, la più brutta pagina riguardante il sistema carcerario italiano, che aveva già conosciuto le raffiche di mitra alle Murate di Firenze (1975), la strage nel carcere di Alessandria (1974), il massacro nel carcere di Poggioreale durante il terremoto del 1980, le torture nel carcere di Bolzaneto nel 2001 e i misteri dell’Ucciardone e del 41bis.
Non si conoscono le reali cause dei decessi occorsi durante le rivolte di pochi giorni addietro, solo in via ufficiosa è trapelata la notizia che si tratti di morti per overdose da metadone, legalmente detenuto nelle infermerie delle carceri per alleviare le crisi di astinenza dei detenuti tossicodipendenti.
Notizie ufficiose di cui ancora non vi è certezza, che potrà essere data solo dalle perizie tossicologiche. Sino ad oggi si parla di ipotesi che, seppur possibili – in quanto legate a elementi di probabilità connessi alla maggiore facilità di accesso, durante le rivolte, alle infermerie delle strutture carcerarie – nulla dimostrano su quanto accaduto.
Nel frattempo, rimane solo l’oblio e la considerazione del carcere come una discarica sociale dove l’essere umano, in quanto tale, scompare, e di lui conta solo il reato.
In questo scenario, l’interrogativo che oggi il costituente deve porsi – al di là delle violente proteste insorte nei diversi istituti penitenziari italiani e delle condotte di altrettanti detenuti, che certamente vanno punite – è se il sistema carcerario italiano, in situazioni di emergenza e non, risulti essere utile e funzionale alla esecuzione penale e alla rieducazione del detenuto. Ciò, in quanto «Lo Stato costituzionale contemporaneo trova la sua premessa antropologico-culturale nel riconoscimento e nella tutela della dignità umana» (Häberle).
E la nostra Costituzione si rivolge a tutti, anche ai detenuti, imponendo doveri e responsabilità, ma anche diritti e tutele, garantiti anche in regime carcerario: la detenzione, infatti, non può essere priva di regole.
Com’è facile osservare, il contesto nel quale la restrizione della libertà raggiunge il massimo grado consentito dalla Costituzione è il carcere, all’interno delle cui mura la dignità umana deve rimanere integra.
La Carta Costituzionale, infatti, con riferimento alla pena ed alla sua concreta espiazione, si basa sui principi di cui all’art. 27 e testualmente dispone: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.”
Da quanto sopra si evincono i principi cardine dell’ordinamento penale italiano, primo fra tutti il principio della personalità della responsabilità penale: ciascun individuo è responsabile solamente per le proprie azioni e, quindi, non può essere punito per un reato commesso da altri; il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva: ciascun cittadino non risulta essere colpevole fino a quando non sia stata emessa sentenza definitiva che accerti la penale responsabilità; il principio di umanità della pena: la Costituzione obbliga i legislatori a non approvare modalità di pena che siano lesive del rispetto inviolabile della persona; il principio della finalità rieducativa della pena: le pene non devono tendere solamente a punire chi si è reso colpevole di un reato, ma, se possibile, devono mirare anche alla rieducazione favorendone il reinserimento nella società.
Il nostro Paese, tra l’altro, è stato uno dei primi a postulare, come proprio principio inderogabile, il ripudio della pena di morte, facendosi attivo promotore affinché tale principio si espandesse in quanti più paesi possibili.
E proprio in virtù di quanto sopra, che la pena non può avere una finalità puramente afflittiva, ma deve mirare alla “rieducazione” del condannato, intendendosi con tale espressione, l’attuazione di tutti gli strumenti possibili, affinché, il soggetto condannato sia coadiuvato nella messa in atto di un percorso educativo che gli consenta il reinserimento nella società.
Non solo, quindi, sono vietati i trattamenti “contrari al senso di umanità”, ma è giuridicamente necessario che la struttura carceraria fornisca strumenti concreti, affinché, il detenuto eserciti tutti i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, potendo escludere solo quelle modalità di esercizio incompatibili con la sicurezza della custodia. Ogni limitazione nell’esercizio dei diritti dei detenuti, che non sia strettamente funzionale a questo obiettivo, acquista un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale e, come tale, incompatibile con la nostra Carta Costituzionale, nonché inammissibile in un ordinamento basato sulla assoluta priorità dei diritti della persona che, proprio nella privazione della libertà personale incontra il limite massimo di punizione che non può mai essere oltrepassato. A tali principi si ispira anche l’art. 3 della CEDU, così come la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea – oggi incorporata nel Trattato di Lisbona – che espressamente fanno divieto di tortura e pene che consistano in trattamenti inumani e degradanti.
Il carcere è, indubbiamente, una formazione sociale prevalente ed assorbente rispetto a tutte le altre possibili durante l’esecuzione della pena detentiva, motivo per il quale, in essa, l’inviolabilità dei diritti, in funzione dello sviluppo della personalità, diviene profilo ancora più complesso.
Si è andata progressivamente sviluppando una tutela dei diritti fondamentali lungo due direttrici complementari: da un lato, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, dall’altro, il riconoscimento positivo di tali diritti in favore dei detenuti. Il primo deve caratterizzare oggettivamente il contenuto di ogni singolo tipo di pena, indipendentemente, dal tipo di reato perseguito e dalla pena specificamente comminata; la restrizione della libertà personale, infatti, non comporta ex se una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell’autorità preposta alla sua esecuzione, motivo per il quale il detenuto – a cui devono essere riconosciuti i diritti costituzionali fondamentali – deve poter esprimere pienamente la propria personalità. Il secondo impone, che, ai detenuti vengano riconosciuti – oltre al fondamentale e globale rispetto della personalità medesima, in tutte le sue articolazioni − l’eguaglianza (nella forma della parità di trattamento e di non discriminazione), l’identità e l’integrità fisiopsichica, la libertà di religione, di istruzione, di lavoro, ma anche il diritto a disporre degli essenziali diritti di relazione e di socialità primaria (colloqui, corrispondenza, ecc.) e il diritto a preservare la propria salute. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, con una nota di poche settimane fa, ha infatti evidenziato come sia ancor più impellente, in questo frangente così delicato di contenimento, la necessità che ogni Paese adotti ogni opportuna misura che possa evitare – o quantomeno scongiurare – il diffondersi dell’epidemia tra le mura carcerarie.
Gli ultimi dati forniti dal Ministero della Giustizia, aggiornati al 29 febbraio 2020 ci indicano che il numero complessivo dei detenuti in Italia è pari a complessivi 61.230 unità, a fronte di una capienza regolamentare pari a 50.931 posti, di questi 19.889 sono stranieri, mentre 2072 donne, quasi un terzo in attesa di giudizio.
Il combinato disposto dell’emergenza sanitaria, in presenza di criticità strutturali e organizzative – come la carenza di posti di degenza nelle strutture ospedaliere, ovvero la carenza di macchinari per la terapia intensiva -e di quella carceraria – essendo il carcere, per come evidenziato dal SIMPSE, un luogo di alto scambio e contagiosità di patologie ed infezioni – porterebbe, ove non gestito adeguatamente, a un esito tanto infausto quanto certo, con migliaia di decessi nella popolazione detenuta.
E ciò, nonostante, il nostro Paese abbia sempre cercato – coerentemente con la finalità rieducativa della pena e con la concezione della residualità della misura cautelare – di garantire ai detenuti la stessa tutela sanitaria, ma soprattutto, lo stesso livello essenziale previsto per qualsiasi cittadino libero.
Il nostro ordinamento, infatti, sin dall’origine, con l’art. 32 della Carta Costituzionale ha posto la salute come diritto fondamentale dell’individuo, garantendo cure gratuite agli indigenti, egualmente garantito e da garantire tanto alla popolazione libera quanto a quella detenuta.
Tale principio è stato il cardine su cui si è mossa, a partire dalla sua prima grande riorganizzazione, la strutturazione del sistema sanitario penitenziario, ponendosi come limite invalicabile a tutela dei nuclei valoriali essenziali del nostro ordinamento.
L’articolo 11 della legge sull’Ordinamento penitenziario, sin dalla sua originaria formulazione, ha stabilito che ogni istituto, sia di piccole che di grandi dimensioni, fosse dotato di “servizio medico e servizio farmaceutico rispondenti ad esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati”.
Ogni singolo istituto penitenziario, quindi, deve garantire al suo interno: l’obbligo di visita all’ingresso nella struttura; la discrezionalità di visita medica dei detenuti indipendentemente da richiesta; la disponibilità del medico per le visite quotidiane dei malati; particolare attenzione alla tutela della salute delle detenute madri e dei loro figli e soprattutto l’adozione di misure per l’isolamento sanitario in caso di malattie contagiose e nel rispetto delle norme in tema di malattia psichiatrica e salute mentale.
La svolta cruciale, nella realizzazione di tali obiettivi, è avvenuta nel 1998, con l’avvio della riorganizzazione del Sistema Sanitario Nazionale, nel quale il legislatore ha coinvolto anche l’organizzazione penitenziaria, proprio per garantire una maggiore uniformità di assistenza sanitaria a livello nazionale, e implementare il suo efficientamento attraverso un controllo maggiormente diretto sul territorio.
Ciò, attraverso le attività di programmazione, indirizzo e coordinamento del SSN, nei diversi istituti penitenziari, da parte del Ministero della Salute; le attività di organizzazione, programmazione e controllo delle Regioni; le attività di gestione e controllo dei servizi sanitari nei singoli istituti, che vengono trasferite alle Aziende Sanitarie Locali.
Tale riforma ha introdotto l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale di tutti i detenuti, estendendone gli effetti, per il periodo detentivo, anche ai detenuti stranieri.
È sulla scia di tale fondamentale implementazione del sistema sanitario penitenziario che il legislatore, anche recentemente, ha deciso di valorizzare il ruolo del SSN all’interno degli istituti penitenziari, cercando di garantire, da un lato, prestazioni tempestive e, dall’altro, la continuità di trattamenti sanitari – intrapresi prima o durante il periodo detentivo – sia all’interno che all’esterno della struttura carceraria.
Il D.Lgs. 123/2018, infatti, nel riformulare l’art. 11 dell’ordinamento penitenziario (L.354/1975), ribandendo il concetto di uguaglianza di trattamento rispetto alle prestazioni sanitarie dei detenuti a quelle di tutti i cittadini liberi, ha previsto la messa a disposizione, per la popolazione detenuta, della carta dei servizi adottata dall’ASL. Il tutto, al fine di garantire un ambiente idoneo a tutelare lo stato di salute, garantire efficienza e continuità delle cure terapeutiche attuate e/o attuabili anche all’esterno del carcere (mediante visite specialistiche da professionisti di fiducia, ovvero trasferimenti in strutture ospedaliere esterne autorizzate). Non solo ma, l’assistenza sanitaria all’interno delle carceri deve rispondere ai bisogni di salute del detenuto e anticiparne le esigenze, in altre parole, il diritto inalienabile alla salute deve essere inteso come “equilibrio psico fisico dinamico con il contesto sociale in cui la persona vive”.
Proprio in virtù di tale principio, al fine di garantire la tutela sanitaria penitenziaria, sono stati “incoraggiati” dallo Stato tutti gli strumenti alternativi alla detenzione cautelare; ciò anche al fine di scongiurare, essendo difficile il rispetto delle misure di contenimento indicate dall’Istituto
Superiore della Sanità e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, il rapido proliferare di contagi (a tutela sia dei detenuti che del personale incaricato), che potessero pregiudicare l’assistenza sanitaria penitenziaria.
Si è reso pertanto necessario, a seguito della emergenza Covid -19, proprio al fine di scongiurare che la pandemia varcasse le mura delle carceri, correre immediatamente ai ripari con il Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18, recante “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID19”. Il tutto anche al fine di agevolare la messa in atto di strumenti alternativi di pena e dell’efficientamento del sistema sanitario penitenziario.
Ed invero, ai sensi dell’art. 123 del predetto Decreto, fino al 30 giugno 2020, per coloro che ne facciano richiesta è possibile ottenere la detenzione domiciliare, con il limite di applicabilità della norma ai soli detenuti che debbano scontare una pena non superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena. Per coloro che, invece, devono scontare una pena da sette a diciotto mesi, è previsto il ricorso ai braccialetti elettronici o ad altri strumenti tecnici di controllo, che saranno resi disponibili secondo un programma di distribuzione che verrà adottato dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione, in accordo con il capo del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, e che dovrà tenere conto della capienza dei singoli istituti, del numero dei detenuti ristretti, nonché delle concrete emergenze sanitarie rappresentate dalle autorità competenti.
Quanto sopra permetterebbe una deflazione della popolazione carceraria, tale da garantire maggiori spazi per coloro che rimangono all’interno delle carceri, con conseguente minore rischio nel caso di contagio, avendo la possibilità di procedere all’isolamento del detenuto infetto.
Com’è noto, la predetta norma pone dei limiti alla misura di detenzione domiciliare – gli stessi limiti previsti dall’art. 1 della L. n. 199/2010 – e, come tale, non potrà essere applicata a quei soggetti che siano ritenuti delinquenti abituali, professionali o per tendenza, o che siano sottoposti al regime di sorveglianza particolare, ovvero che abbiano commesso reati particolarmente gravi come, a titolo esemplificativo, quelli richiamati dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, maltrattamenti in famiglia o stalking, così come coloro che abbiano partecipato alle rivolte dei giorni scorsi, e quei detenuti che siano privi di idoneo domicilio effettivo, anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato.
Proprio in virtù dell’attuale stato di necessità ed urgenza, è stato previsto, per la fase istruttoria della eventuale concessione della detenzione domiciliare, che il Direttore dell’Istituto penitenziario possa omettere la relazione attestante la condotta del detenuto durante il periodo di detenzione e si limiti ad evidenziare esclusivamente: il tempo restante della pena da scontare, la non sussistenza delle preclusioni di cui al primo comma dell’art. 123 del predetto Decreto, e il manifesto consenso del detenuto all’attivazione delle procedure di controllo.
Altra deroga alle norme previste dall’ordinamento penitenziario riguarda il regime di semilibertà. L’art. 124 del predetto Decreto prevede, infatti, che le licenze premio, previste per coloro che siano in regime di semilibertà, possano essere concesse fino al 30 giugno 2020, in luogo dei 45 giorni previsti dagli artt. 52 e ss. dell’Ordinamento Penitenziario.
È auspicabile che il legislatore al fine di una eventuale riforma del nostro sistema penale – allo stato di non facile conversione ai sistemi “telematici” sia sul fronte penitenziario che giudiziario – per evitare, o quantomeno scongiurare, una possibile compressione delle garanzie degli imputati e dei detenuti, debba valutare opportune ipotesi di riforma che consentano, da un lato, la riduzione dei numeri della popolazione carceraria e, dall’altro, che venga sì garantita l’esecuzione penale volta alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato.
Contributo scientifico a cura del Dipartimento Diritti Umani della Fondazione Aiga Tommaso Bucciarelli
Avv. Gabriella Mignacca
Avv. Emanuela De Francesco
Avv. Giorgia Ippoliti
Avv. Sara Principessa
Avv. Miriana Palermo
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