Emergenza sanitaria coronavirus: Fake news e infodemia
17 Marzo 2020
FAKE NEWS E INFODEMIA*
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Scopo del presente contributo è quello di orientare l’interprete nell’applicazione delle vigenti disposizioni di legge, con riferimento alle possibili problematiche scaturenti dalla proliferazione di fake news e dal recente fenomeno dell’infodemia.
In questi giorni, il tema delle fake news, già al centro del dibattito politico nei paesi occidentali per i preoccupanti risvolti non solo sul mondo dell’informazione, ma anche sulla stessa genuinità del dibattito politico soprattutto in occasione di competizioni elettorali, ha assunto una connotazione diversa e una dimensione planetaria in ordine alla pandemia da coronavirus, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito per la prima volta il concetto di infodemia ovvero quell’abbondanza di informazioni, alcune accurate ed altre no, che rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno.
Il fenomeno è ormai conclamato, tanto è vero che, anche il vocabolario Treccani, ha inserito la parola tra i neologismi 2020, specificando che si tratta della circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili.
In questi giorni, il senso di smarrimento delle persone, comprensibilmente impegnate a reperire notizie, le misure di contenimento sempre più restrittive per rallentare la diffusione del virus e tendenti a favorire il distanziamento sociale con ciò determinando un isolamento inconsueto, hanno alimentato la diffusione incontrollata di informazioni, tanto che già alla metà del mese di febbraio, quando ancora l’emergenza sanitaria attuale sembrava essere impensabile, circolavano circa un miliardo di files, provenienti da fonti incerte ed addirittura molto spesso non verificabili.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha voluto sottolineare che forse “il maggiore pericolo della società globale nell’era dei social media è la deformazione della realtà nel rimbombo degli echi e dei commenti della comunità globale su fatti reali o spesso inventati”.
Insomma, il tema già cruciale delle fake news si palesa in tutta la sua virulenza, per restare alla terminologia ricorrente in questi giorni, nel momento in cui le informazioni dovrebbero essere messe a disposizione di tutti, proprio al fine di contenere il contagio.
Per il giurista che voglia confrontarsi con questi temi, si impone anzitutto la rilettura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, laddove all’art. 19 è stabilito che “ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.
Il Patto Internazionale sui diritti civili e politici sottoscritto nel 1966, all’art 19 comma 3 stabilisce che l’esercizio di tali libertà (opinione ed espressione) comporta “speciali doveri e responsabilità” e pertanto può essere sottoposto, con norme di legge, alle restrizioni necessarie per la tutela “dei diritti o della reputazione altrui” e la “salvaguardia della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della sanità o della morale pubbliche”.
Ne discende che qualche restrizione può coesistere con il rispetto e la tenuta del sistema democratico, caro a tutte le moderne democrazie, mentre una notizia falsa può essere vietata, senza violare le libertà fondamentali, a condizione che leda i diritti di un cittadino, ovvero che metta a rischio la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, la sanità o l’ordine morale.
Fatta questa premessa, un’analisi del quadro normativo italiano può essere utile per sensibilizzare tutti ad un uso e ad una diffusione consapevole delle informazioni con le moderne tecnologie.
Nel sistema italiano la libertà di espressione e la libertà di stampa costituiscono principi costituzionali, tanto è vero che, come stabilisce l’art 21 della nostra Costituzione, tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo d’ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.
Insomma, la libertà di espressione e la libertà di stampa sono molto ampie e, pur con alcune limitazioni, si delinea un sistema coerente con i principi internazionali che caratterizzano la maggior parte delle democrazie.
In particolare, quanto alle limitazioni, si pensi alle norme previste dal codice penale in materia di diffamazione (art. 595 e ss.), oppure alle disposizioni di cui alla legge n. 205/1993 (cd. Legge Mancino), recante misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa.
Un precetto penale di scarsa applicazione è quello contenuto nell’art. 656 c.p., a tenore del quale chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico, è punito se il fatto non costituisce un più grave reato [c.p. 265, 267, 269], con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 309.
Questa è l’unica norma che nel nostro ordinamento giuridico punisce la diffusione di notizie false, esagerate e tendenziose, ovvero idonee a turbare l’ordine pubblico e la circostanza che nel tempo abbia subito il vaglio di costituzionalità (con riferimento agli artt. 18, 21 e 49 Cost.), ci consente oggi di rileggere con rinnovato interesse i principi che la Corte Costituzionale ha elaborato oltre cinquanta anni fa in questa materia e che possono coadiuvare l’interprete in relazione al problema delle fake news, visto che il precetto penale si applica indipendentemente dal fatto che la notizia falsa sia anche diffamatoria, essendo sufficiente che la stessa sia idonea a turbare l’ordine pubblico.
La Consulta, con la sentenza n. 19 del 16 marzo 1962, ha chiarito cosa debba intendersi per notizie tendenziose, stabilendo che, ai sensi dell’anzidetta disposizione, sono da considerarsi notizie tendenziose quelle che, pur riferendo cose vere, le presentino tuttavia (non importa se intenzionalmente o meno) in modo che chi le apprende possa avere una rappresentazione alterata della realtà. Prosegue, poi la sentenza chiarendo che il che può avvenire pel fatto che vengano riferiti o posti in evidenza soltanto una parte degli accadimenti (eventualmente quelli marginali e meno importanti), sottacendone o minimizzandone altri (eventualmente di pari o maggiore importanza, o comunque idonei a spiegare o addirittura a giustificare quelli riferiti); pel fatto che gli accadimenti vengano esposti in modo da determinare confusione tra notizia e commento; e in altri simili modi. Suscitando in chi le apprende una rappresentazione alterata della realtà, le notizie tendenziose deformano, dunque, la verità; e appunto sul presupposto di ciò ne viene punita dal Codice penale la pubblicazione e diffusione, quando questa (indipendentemente dall’intento dell’agente) sia idonea a porre in pericolo l’ordine pubblico. La fattispecie legale della cui legittimità costituzionale il Pretore di Ascoli Piceno dubita non comprende, dunque – contrariamente a quanto una certa parte della giurisprudenza ritiene – il caso di chi divulga interpretazioni, valutazioni, commenti, ideologicamente qualificati, e persino tendenziosi, relativi a cose vere; ma semplicemente il caso di chi divulga notizie, falsandole attraverso la maniera di riferirle, e cioè notizie che, in un modo o nell’altro, non rappresentano il vero.
Questa ricostruzione si attaglia, oggi, perfettamente alle fake news, le quali si identificano nel racconto di fatti falsi ovvero non totalmente inventati, ma riportati in modo così distorto, parziale e spesso fazioso, da risultare falsi.
La falsità della notizia, come detto, deve però essere idonea a turbare l’ordine pubblico ed anche in questo caso è la Corte Costituzionale, con la stessa sentenza sopra citata, ad aver fornito una definizione piuttosto restrittiva del concetto di ordine pubblico, che di fatto determina la difficile applicabilità della norma.
Difatti, nel perimetrare l’ambito di applicazione dell’articolo 656 c.p., il mantenimento dell’ordine pubblico è stato identificato nella preservazione delle strutture giuridiche della convivenza sociale, instaurate mediante le leggi, da ogni attentato a modificarle o a renderle inoperanti mediante l’uso o la minaccia illegale della forza.
Pertanto, in questi termini il messaggio intenzionalmente falso non può essere soggetto a limitazioni, ferme le altre disposizioni sopra richiamate, in linea con quanto accade in altre democrazie.
Insomma, la semplice diffusione di notizie false, non diffamatorie o discriminatorie, sembra avere copertura costituzionale ai sensi dell’art. 21 della nostra Carta, essendo di difficile percorribilità l’ipotesi di ritenere che la diffusione di notizie false possa determinare un turbamento dell’ordine pubblico nei termini sopra delineati.
Superfluo specificare che, ai nostri giorni, questa partita si gioca prevalentemente sul web, principalmente sui social network, laddove il delicato equilibrio tra la libertà di espressione, in uno anche con la stessa necessità di garantire l’anonimato – conquista di democrazia ovunque e soprattutto laddove l’utente si trovi ad operare in contesti avvezzi alla censura – pone sempre con maggiore frequenza questioni di non semplice soluzione.
Invero, se da un lato, stando alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, la diffusione della notizia falsa, se non lesiva, non può essere vietata, è parimenti indubitabile dall’altro che l’uso distorto della tecnologia necessita di un approccio completamente rinnovato, per evitare quella virulenza che tanto pone a rischio la stessa utilità della diffusione capillare di informazioni, soprattutto quando le stesse sono non verificabili o si rivelano addirittura false.
La maggior parte delle fake news, infatti, non è generata da profili social riconducibili a persone realmente esistenti, ma dai cosiddetti bot, che altro non sono che software che creano automaticamente profili fittizi (fake) e contenuti sui social network e nelle chat (chat bot) simulando conversazioni tra persone esistenti.
La diffusione dei bot, originariamente solo nel marketing, ha subito nel tempo una vera e propria impennata, attestandosi su livelli inimmaginabili, sicché oggi le fake news sono diffuse da fake people e sono in grado di condizionare, come ci racconta la storia recente, lo stesso dibattito politico, determinando la necessità di valutare le possibili implicazioni per i sistemi democratici.
Infatti, è stato chiarito che gli algoritmi utilizzati dai social network, per ragioni tecniche, favoriscono proprio la diffusione delle notizie generate da fake people con tutto ciò che ne consegue, anche in questo caso con una sinistra assonanza con quanto sta accadendo in questi giorni, in termini di herd effect (effetto gregge), che spesso guida le dinamiche sociali e le scelte individuali.
Infine, non di secondaria importanza, resta la questione circa il soggetto che deve valutare la veridicità o la falsità della notizia veicolata.
Soccorre, per l’interprete, la “Dichiarazione congiunta su Fake News, Disinformazione e Propaganda” firmata il 3 marzo 2017 a Vienna, la quale individua i principi per tutelare la libertà di stampa, soprattutto sul web al solo fine di scongiurare l’introduzione di forme di censura indiretta col pretesto di evitare la diffusione di fake news.
In essa, si dichiara incompatibile con gli standard internazionali qualsiasi generica proibizione della diffusione di informazioni basata su concetti vaghi e ambigui come le “notizie false” o “informazioni non obiettive” e si stabilisce che i titolari dei social network non devono mai essere ritenuti responsabili dei contenuti, fatto salvo il caso in cui si rinvenga un loro contributo nella creazione del contenuto, ovvero che gli stessi si rifiutino di rimuovere un contenuto nonostante un ordine da parte delle Autorità.
Affrancato il dibattito dall’aneddotica più recente, resta il fatto che non sembrerebbe possibile fornire soluzioni che assicurino la sicura tenuta dei sistemi democratici.
Però, d’altro canto, si avverte con sempre maggiore forza l’esigenza di protezione delle moderne democrazie dagli effetti perversi generati dalla diffusione di notizie false, amplificata grazie all’uso della tecnologia.
Questo delicato meccanismo coinvolge tra gli altri il Legislatore, la Magistratura, l’Avvocatura, gli operatori nell’informazione, tutti chiamati a vario titolo a favorire la libertà proteggendo la democrazia.
Continuano ad essere di straordinaria attualità le parole di uno degli inventori del world-wide-web, Tim Berners-Lee, fondatore peraltro della Web Foundation, il quale in una lettera pubblicata il 12 marzo 2017, “ha denunciato come i pericoli maggiori vengano, oltre che dalla mancanza di privacy, dalla disinformazione e dall’utilizzo distorto del web in campo politico, attraverso campagne ritagliate artificialmente su gruppi di utenti”, ponendosi e ponendoci un quesito cruciale: “La pubblicità (propaganda) mirata consente a una campagna di dire cose completamente diverse, forse in conflitto, a gruppi diversi. Questo può dirsi democratico?”.
Anche in questo caso la risposta è decisamente ardua.
A riprova dell’attenzione dedicata al tema, si segnala la Dichiarazione dei diritti in Internet, elaborata nel 2015 da parte della Commissione per i diritti e i doveri relativi ad Internet della Camera dei Deputati, che all’art. 13 stabilisce che la sicurezza in rete deve essere garantita come interesse pubblico, attraverso l’integrità delle infrastrutture e la loro tutela da attacchi, e come interesse delle singole persone, mentre al comma 2 stabilisce che non sono ammesse limitazioni della libertà di manifestazione del pensiero. Deve essere garantita la tutela della dignità delle persone da abusi connessi a comportamenti quali l’incitamento all’odio, alla discriminazione e alla violenza.
La strada per giungere alla trasparenza nella diffusione delle informazioni è probabilmente molto lunga, ma il viaggio è cominciato.
*Contributo a cura dell’Avv. Francesco Colapaoli, Vice Presidente della Fondazione AIGA Tommaso Bucciarelli.
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